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    BILLY WILDER

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    Messaggio Da Frau Blucher Gio Lug 12, 2012 3:46 pm

    Billy Wilder

    BILLY WILDER 82
    Data nascita: 22 Giugno1906 (Cancro), Sucha (Polonia) Data morte: 27 Marzo 2002 (95 anni), Los Angeles (California - USA)


    Regista statunitense. Maestro di commedie esilaranti, dal tocco leggero e insieme sottilmente pungente, autore di grandi storie drammatiche, amare e corrosive, capace di tenere insieme commedia e dramma in un infuso di sapore agrodolce, lascia una traccia indelebile nella storia di Hollywood e del cinema tutto. Austro-ungarico di nascita, giornalista prima a Vienna (dove riesce a farsi buttar fuori di casa da S. Freud) e in seguito a Berlino, svogliato studente di giurisprudenza all'università della capitale, «ghostwriter» occasionale, soggettista e sceneggiatore, lascia la Germania all'avvento di Hitler per emigrare prima in Francia e poi negli Stati Uniti Sembra che il suo incontro con il cinema sia avvenuto non per scelta, ma per una curiosa concatenazione di eventi dovuti al caso. Si narra – ma forse è una leggenda – che W. avesse perso un po' di marchi con il produttore J. Pasternak, e che costui, per farseli restituire, lo avesse messo a lavorare su una sceneggiatura. In quella Berlino fine anni '20 dove già si cominciano a percepire gli scricchiolii sinistri della Repubblica di Weimar, molti degli uomini che in seguito contribuiranno a costruire il classicismo hollywoodiano degli anni '30 e '40 sono presi dal mondo del cinema per puro gioco del destino. È noto che andranno quasi tutti negli Stati Uniti, traducendo nel cinema hollywoodiano, non solo in quello più ricco, ma anche in quello più seriale, i segni, quasi le stimmate dei grandi conflitti etici e spirituali che affondano le radici nella cultura tedesca. Chi in forme dolorosamente sofferte, dichiarate, quasi gridate; chi in forme trasfigurate, filtrate, non dette. W. appartiene al secondo versante. Forse per questo il suo cinema continua a sfuggire a qualsiasi organica sistemazione critica. Egli assume indifferentemente la maschera comica della commedia brillante e quella corrucciata del dramma. In un film si colloca in posizione opposta a quello che aveva messo in campo nel precedente. Dice e contraddice in un gioco di continui rovesciamenti di fronte. A Berlino, negli anni immediatamente precedenti l'esodo, scrive, insieme a personaggi del calibro di F. Zinnemann e E. Ulmer, soggetto e sceneggiatura di Menschen am Sonntag (Uomini di domenica, 1929) diretto da R. Siodmak, un affresco della grande città e della sua gente. Scrive ancora per Siodmak, poi collabora alla sceneggiatura di La terribile armata (1931) di G. Lamprecht, misurandosi con un genere per lui nuovo, il poliziesco, e più avanti scrive altri testi, per lo più di tono operettistico-viennese. Un giorno del 1933, mentre è seduto ai tavolini all'aperto di un caffè, assiste al pestaggio di un uomo inerme da parte di una squadra nazista e capisce che è l'ora di fare le valigie. In Francia collabora con A. Esway alla regia di Mauvaise graine (1933), di produzione statunitense, che gli appare un film puramente convenzionale, e nel 1934 decide di trasferisi a Hollywood. Comincia la routine degli studios scrivendo soggetti e sceneggiature in serie, come un normale impiegato d'ufficio, fino a quando, in coppia con C. Brackett, mette le mani sullo script di L'ottava moglie di Barbablù (1938) di E. Lubitsch. L'anno dopo, sempre per Lubitsch (e sempre a quattro mani con Brackett, con il quale stabilirà un lungo sodalizio) scrive la sceneggiatura di Ninotchka (1939). È praticamente il passaggio decisivo della sua carriera hollywoodiana. La metamorfosi del personaggio di G.Garbo, da ieratico, sofferto e distante quale è sempre stato, a quello brillante e quasi spumeggiante dell'improbabile comissario «bolscevico» Ninotchka, lascia il segno. Dopo aver scritto un altro paio di film, tra cui il sapido Colpo di fulmine (1942) di H. Hawks, passa alla regia con Frutto proibito (1942), travestendo la già trentaquattrenne G. Rogers in una adolescente alle prime pulsioni sessuali. Due anni dopo realizza una delle sue opere più intense, La fiamma del peccato (1944), tratto dal romanzo di J. Cain, di cui scrive anche la sceneggiatura in coppia con R. Chandler. Si tratta di un topico cruciale del noir, nel quale fa la sua apparizione una figura di «dark lady» (B. Stanwyck) ambigua, sfuggente, carica di sottili e inquietanti sfumature, tanto seducente quanto infida. Un film che diventa una sorta di «punto di non ritorno» per un genere che di lì in avanti vivrà una stagione quasi trionfante per tutti gli anni '40 e '50. Il film successivo, Giorni perduti (1945), è un'opera ad altissimo tasso drammatico, un'incursione nella piaga dell'alcolismo che qua e là si lascia andare a qualche simbolismo di troppo. W. si riporta sulle piste del genere brillante con Il valzer dell'imperatore (1948), con la commedia giallo-rosa Scandalo internazionale (1948), e soprattutto con la sceneggiatura di Venere e il professore (1949), remake ancor più pruriginoso di Colpo di fulmine. Appaiono già le tracce di quello che verrà definito da alcuni «cinema del travestimento», da altri «cinema travestito». Farsa e tragedia, spontaneità e manipolazione, innocenza e cinismo. Di fatto, W. farà del cinema una sorta di gigantesco romanzo visivo, celando al suo interno alcune delle grandi, insondabili figure del «moderno»: la dialettica delle inversioni, il gioco antinomico dell'essere e dell'apparire. Scaverà nei traumi della società americana con occhio crudo e impietoso, mascherandoli dopo dietro il velo liberatorio delle situation comedy e del burlesque: Giorni perduti e Sabrina (1954); L'asso nella manica (1951) e Quando la moglie è in vacanza (1955). E diverrà ben presto un maestro in quella regia «invisibile», propria del film classico hollywoodiano, filmando il «dentro» e il «fuori» del cinema. Un titolo su tutti, Viale del tramonto (1950), dove mette in scena un morto che parla (W. Holden), che racconta in flash-back i retroscena del suo assassinio. Ma soprattutto affonda una lama in quel simulacro di eternità illusoria e inane che è la fabbrica dei sogni hollywoodiana, in una sorta di redde rationem evocativo e nemesiaco, facendo reincontrare sul set G. Swanson ed E. von Stroheim, per la prima volta dopo la traumatica rottura seguita al fallimento di Queen Kelly, lei nei panni di una vecchia diva semidemente, lui in quelli dell'ex marito innamorato, decaduto al rango di fedele maggiordomo. L'opera che segue, L'asso nella manica, presentata alla Mostra di Venezia, appare un affondo acido e impietoso, un fendente portato al mitico «sogno americano». Il giornalista (K. Douglas) che gioca con la vita di un uomo pur di costruire un evento mediatico, risulta del tutto indigesto a una critica che reagisce indignata e che monta l'opinione pubblica contro il regista (come se W. non fosse stato un giornalista di professione, ben esperto dei «trucchi» del mestiere). Il film rischia di non venire distribuito (infatti arriva nelle sale americane solo nel 1953), e W. sta per essere bollato come anti-americano in pieno clima di maccartismo montante. Non per questo, ma per il suo profondo spirito antifascista, il regista realizza l'anno successivo Stalag 17 (1952), ambientato in un campo di concentramento nazista, prima di ritornare alla commedia con Sabrina, in cui dirige la improbabile coppia A. Hepburn-H. Bogart, con realtivo terzo incomodo W. Holden. Segue subito dopo lo sfolgorante Quando la moglie è in vacanza, con la strepitosa M. Monroe, indimenticabili le sue gambe scoperte da una folata d'aria che le solleva la gonna, il suo sguardo languido e ribollente. Indimenticabile anche la sua sensualità irresistibile in A qualcuno piace caldo (1959), che prorompe sconvolgendo i sensi e le menti di T. Curtis e J. Lemmon, travestiti in panni muliebri e roventi di desiderio, il secondo, alla fine, oggetto di una ambivalente proposta di matrimonio da parte di uno stagionato miliardario («Nessuno è perfetto»). W. è forse il regista che è andato più vicino al disvelamento di quel geroglifico, di quell'indecifrabile groviglio esistenziale che è stata la Monroe. Con L'appartamento (1960) piombano nella carriera di W. cinque Oscar. Grande intreccio di commedia e dramma, il film è un capolavoro dai toni farseschi e dal sapore crudo. J. Lemmon è perfetto nella parte del piccolo impiegato che pur di far carriera mette a disposizione il proprio alloggio per le scappatelle extraconiugali degli alti dirigenti. Servizievole, dimesso, sostanzialmente succube, Lemmon alza la testa quando scopre che la dolce S. MacLaine, amata in segreto, è una delle prede del proprio direttore. La coppia Lemmon-MacLaine è frizzante anche in Irma la dolce (1963), gustoso e sapido romanzo d'amore tra un solerte poliziotto e una giovane prostituta, ambientato in una Parigi splendidamente ricostruita dal grande scenografo A. Trauner, che già si era aggiudicato uno degli Oscar di L'appartamento. Prima di Irma la dolce, W. aveva messo in scena una scoppiettante satira del comunismo sovietico con Uno, due, tre! (1961), dove non lesinava bordate anche al capitalismo rampante, qui incarnato da uno strepitoso J. Cagney, esportatore della Coca-Cola in Germania («La Coca Cola mi fa ridere, e quando la bevo mi fa ancora più ridere», dirà poi il regista). Baciami stupido (1964) è forse il fiasco più clamoroso di W. Un delizioso equivoco, uno scambio di coppie in cui l'esclusività sessuale del matrimonio viene maliziosamente messa in gioco. Forse l'insaziabile appetito sessuale di D. Martin, forse la «intoccabile» sacralità del matrimonio (e soprattutto del divorzio) scatenano il puritanesimo di certa critica di fronte a un'opera dagli umori caustici e dal taglio esilarante. Con il film successivo, Non per soldi... ma per denaro (1966), arriva sullo schermo la geniale accoppiata W. Matthau-J. Lemmon, che si riproporrà nel nuovo feroce sberleffo lanciato alla stampa americana con Prima pagina (1974), e infine in Buddy Buddy (1981), l'ultimo, impagabile film di W., preceduto dal malinconico Fedora (1978), quasi una sorta di anamnesi che evoca in qualche modo l'aspro sapore di Viale del tramonto. Canagliesco, cinico, un po' cialtrone, Matthau fa da perfetto contraltare al candido e impacciato Lemmon, sia in Non per soldi, quando tenta di sfruttare un piccolo incidente occorso al partner per cavarne fior di dollari, sia in Buddy Buddy, nelle vesti di un killer che deve eliminare un pericoloso testimone, e invece incrocia un partner abbandonato dalla moglie, disperato e maldestro, e finisce per non liberarsene più. Negli ultimi vent'anni della sua vita, malgrado l'intatta freschezza creativa, W. non troverà più finanziamenti per realizzare un altro film. La legge del tempo, e soprattutto quella di Hollywood, appaiono inesorabili.





    Fonte: MyMovies


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